I VERI SCRITTORI? SONO I GIORNALISTI

 

Dissipatio 

L'altra faccia dell'Intellettuale Dissidente

Attraverso questa vasta e variegata e parziale antologia si vuole celebrare un concetto semplice fino alla crudeltà. Il ‘canone’ del Novecento italiano è fatto da giornalisti-scrittori. O meglio. Da scrittori che hanno esercitato il giornalismo. I quotidiani sono stati la palestra dei letterati di talento, che in redazione hanno imparato il pregio del fango, il genio della rapidità narrativa, della riflessione arguta, della rapina retorica. Hanno imparato, cioè, che esiste (anche) un lettore. I casi canonici sono noti: Dino Buzzati; Pier Paolo Pasolini; Giovanni Arpino; Ennio Flaiano; Gianni Brera. Gli altri fondano la nostra biblioteca: Guido Piovene, Goffredo Parise, Mario Soldati, Enzo Bettiza... Tutti – per lo più, ricchi di idee e poveri di soldi – hanno praticato l’arte più antica del mondo pur di campare. Il giornalismo insegnava umiltà, senso creativo, obbedienza alla forma. Oggi, sbracato, vale, letterariamente, nulla.

Guido Piovene contro il “terrorismo culturale”

La critica giornalistica, che dovrebbe informare e guidare il lettore tra i libri appena pubblicati, è entrata in uno stato confusionale. Come tutto in Italia, è intelligente, ma di rado è utile e attendibile. La confusione si riflette nel lettore: quel libro è veramente tanto buono (o scadente) come il critico dice? Specialmente gli elogi lo lasciano poco convinto. Il critico si sente fare, a quattr’occhi, domande che in altri tempi avrebbero provocato un duello: detto tra noi, quel libro di cui ha parlato bene vale proprio qualcosa? Non ci sono duelli. Il critico, molto spesso, storce la bocca, alza una spalla, cerca insomma di «salvare l’anima» con una ritrattazione privata. Vi sono anche le stroncature e possono essere ingiuste. Ma l’elogio indiscriminato al buono, al mediocre e al cattivo urta ancora di più e confonde di più i valori. Possibile che a certi piaccia davvero tutto? Si direbbe di sì: da quanti anni lodano tutti i libri che passano per le loro mani! Vi è poi l’arte della riserva, la riserva di poche righe, tanto velata che il lettore non se ne accorge, insinuata in un articolo interamente elogiativo. Il critico, ancora una volta, la mette per «salvare l’anima», cioè per dire solo a se stesso che il libro gli fa schifo. Così un gran numero di libri idioti, falsi o inutili riceve le sue lettere di raccomandazione.
Basandosi sui giornali la cultura italiana sembra vivace, ricca; sono mascherati i suoi vuoti, il suo declino, il suo sfinimento. Lasciamo da parte la stampa di partito o impegnata nella lotta ideologica. Parliamo della grande stampa d’informazione, con cui tutti hanno a che fare. Per quanto possa esibire veleni, l’impressione d’insieme, che resta nei lettori più in là della lettera, è che sia un panegirico a molte voci. E che anche le critiche contrarie nascano dipendenti da quelle laudative. E che esista una mappa d’autori e di gruppi d’autori, fluida, mal definibile, di cui si dice solo bene. Lo spettacolo sembra quello di una perpetua incensatura, come nelle funzioni sacre, dove si vede sempre un prete che gira con turibolo e incensa gli altri a turno...
Esiste un terrorismo culturale, e funziona. Non sono pochi i Garibaldi dei quali dire male è disonorante, specialmente nella sezione snobistica della borghesia, la più stupida della terra e la più codarda. Chi ha il coraggio di prendere una posizione critica di fronte alle avanguardie, ammettendone (con larghezza) quello che è interessante e nuovo, ma rifiutando le idiozie pure, semplici ed evidenti? Chi distingue più l’erotismo, anche sboccato, che ha la sua ragione espressiva, da quello già stanco di tanti, noioso pedaggio pagato a un rito obbligatorio? La critica dovrebbe scoraggiarlo, non la censura! Chi si oppone agli arbitri di certi registi? Bisogna accettare (o ammirare) tutto quello che avviene. Si ha così spesso un rifiuto di giudicare, mascherato di elogio, un elogio con fondo gelido, pieno d’indifferenza, spavento, magari disprezzo. Niente di strano. I moralisti dicono che il mondo d’oggi, per inerzia affettiva, assenza di passioni morali calde, giustifica ogni comportamento, compreso quello criminale. Il debole mondo dei libri può avere reazioni più forti, più energia nel negare, più passione morale e capacità d’amore che gli altri settori nei quali la posta in gioco è ben più grave? E perché l’Italia dovrebbe avere una critica giornalistica migliore, per esempio, della magistratura con cui ha in comune l’obbligo dei giudizi? O non uniformarsi in parte a quel sottogoverno che costituisce la norma di ogni attività del Paese? Nel Candide di Voltaire (1759) il senatore veneziano Pococurante pronuncia la celebre frase: «In tutta la nostra Italia, si scrive solo quello che non si pensa». Vi è una persistente tendenza a ricascarvi.

Guido Piovene
Dino Buzzati incontra Albert Camus
Albert Camus muore il 4 gennaio del 1960. “Combat”, la rivista della resistenza di cui Camus fu redattore capo dal 1943 al 1947, apre con una tragica “Edition Spéciale”. Albert Camus est mort, urla il giornale, a caratteri cubitali. Il titolo del pezzo centrale è ciò che ci attendiamo: “Una coscienza contro il caos”. Ovvio l’editoriale: “Di noi era il migliore”. Un po’ tutta la stampa del pianeta piange Camus, strappato al tempo da un terribile incidente stradale, ricordandone le opere, la questione dell’assurdo, l’esistenzialismo, l’uomo in rivolta. L’articolo più bello, però, lo scrive Dino Buzzati, viene pubblicato il 6 gennaio del 1960 sul “Corriere d’Informazione”. Il titolo, sparato, rompe fin da subito il cliché: Era un uomo semplice. Il pezzo di Buzzati – che trovate nel ‘Meridiano’ Mondadori delle Opere scelte a cura di Giulio Carnazzi, del 1998 – è un piccolo capolavoro di giornalismo narrativo.
Per raccontare il genio di Camus, Buzzati sceglie l’oblò di un ricordo, di un istante. Un istante che è icona. L’episodio è autobiografico: Camus traduce un testo teatrale di Buzzati, Un caso clinico, tratto dalla novella I sette piani. La pièce, come Un cas interessant, va in scena a Parigi nel 1955. Buzzati è invitato alla ‘prima’. “Mi sentivo un verme, il provinciale classico piombato nella Ville Lumière, proprio a contatto con uno dei suoi maggiori lumi. Camus non aveva avuto ancora il Nobel ma era già famoso in tutto il mondo”.
La strategia giornalistica di Buzzati è micidiale. Egli ribalta, sistematicamente, tutti i luoghi comuni, tutte le attese. Intanto, gioca a fare il cretino. “Di fronte a uno scrittore così importante e famoso… ero annientato dal complesso d’inferiorità”; “non ricordo le cose che dissi, i commenti che feci, perché ne risulterebbe un campionario di cretinerie addirittura meraviglioso. ‘Ma come?’ io immaginavo che lui pensasse. ‘Come è possibile che io abbia tradotto la commedia di un ebete simile?’”. Soprattutto, Buzzati disorienta il canonico ritratto di Camus: volitivo, severo, di austera intelligenza, autentico indagatore degli abissi dell’uomo. Al contrario, Buzzati non incontra uno scrittore, ma un uomo, verace, fin dai tratti fisiognomici. “Era una faccia, grazie a Dio, non da marcio intellettuale; se mai da sportivo, chiara, popolaresca, solida, bonariamente ironica… E quando si mise a parlare, con infinita consolazione mi accorsi che il dentro era identico al fuori”.
Camus fa fare a Buzzati una sommaria gita a Parigi, in attesa della fatidica ‘prima’ (“Fu di una bontà, di una comprensione, di una delicatezza che valevano almeno uno dei suoi libri”). Lì, il pezzo di Buzzati ha una impennata indimenticabile. Alla ‘prima’, segue consueta festa con scrittori, produttori, attori. “A una certa ora, congedatisi pezzi grossi e critici, rimasero gli attori, qualche giovanotto e alcune graziose ragazzine. Misero su dei dischi… Camus non stette fermo un secondo. Un ballo dietro l’altro, con allegria di ventenne. La filosofia?, i grandi problemi dell’uomo?, il dramma delle comunità moderne?, la nostra eterna condanna alla solitudine? Quella sera, almeno, Camus fu felice di essere al mondo”.
Questa sarebbe di per sé una chiusa formidabile. Camus, il teorico della rivolta, che balla con la foga di un ragazzino; l’esegeta dell’assurdo gonfio di gioia. Che immagine straordinaria. Nel giorno in cui si ammette la morte, l’acuto di vita. La morte è sconfitta da un genio che balla con avida ferocia. Ma Buzzati scrive una frase in più. La frase che aggiunge Buzzati e che serra l’articolo sposta il piano. È una frase del tutto narrativa. È uno scarto. È un salto. È una frase giornalisticamente inutile – narrativamente eccelsa. È una frase che dà il tono a tutto il pezzo, un ritmo ispirato, che ha valuta di simbolo, acceso. Quella frase, così semplice, che chiude il ‘coccodrillo’ per Camus ci ricorda che Buzzati è un narratore di razza. “Era vestito di blu”. Ecco la frase. Rileggiamo. “Quella sera, almeno, Camus fu felice di essere al mondo. Era vestito di blu”. Che chiusa elegante, che colpo da biliardo narrativo. Il blu è il colore della pace, di chi è risolto in serenità. È il colore dei cieli di Giotto, è il colore della poesia di William B. Yeats, Lapis Lazuli, è il blu di Yves Klein, che morirà due anni dopo Camus. “Era vestito di blu”. Buzzati ha visto Camus in forma di angelo.
Rotocalco giornalistico-narrativo

Mario Soldati vs. Ingmar Bergman. “Bergman non si sforza di creare un racconto avvincente che avvolga lo spettatore e gli faccia dimenticare di trovarsi al cinema. Bergman si sforza di ottenere tutto l’opposto: ha forse capito che, almeno a lui, la noia rende più del divertimento, ed è un prodotto più facile?”. (La Stampa, 23 novembre 1973)

Il miracolo italiano secondo Giorgio Bocca. “Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti, cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una. Non volevo crederci. Poi mi hanno spiegato che ce n’era una in via del Popolo: se capitava un cliente, forestiero, il libraio lo sogguardava, con diffidente stupore. Chiusa per fallimento, da più di un anno. Diciamo che il leggere non si concilia con il correre e qui, sotto la nebbia che esala dal Ticino, è un correre continuo e affannoso”. (Il Giorno, 14 gennaio 1962)

Goffredo Parise: Saigon come Napoli. “Basta vedere città come Bangkok, Saigon, con la loro pazza e dissociata esplosione di american way of life (asiatica però), il loro ibrido e tattile rapporto con i Gordon Flash americani, simili ad abitanti di un pianeta stupefatto; i loro nuovissimi grattacieli sorti accanto a casupole di legno, alveari di cubicoli per “bagni e massaggi” traboccanti di schiuma Badedas; i loro bar pullulano di stupende contadine asiatiche trasfigurate da hippies, le loro strade popolate di minuscoli e micidiali lustrascarpe che propongono di lustrare almeno una scarpa, come in un’immensa e atomizzata Napoli 1943; e vedere Vientiane e Phnom Penh, così prossime al contagio; e, di contro, guardare Hanoi o magari Pechino, e i villaggi controllati dal “Pathet Lao” per essere colpiti, fisicamente ancor prima che politicamente, dalla certezza che la disciplina coatta, la grande povertà, l’ostinazione, il dolore privato e collettivo di chi non ha nulla e, perché no, la propaganda e la dittatura su cui si basa la vita quotidiana della popolazione, sono tutti elementi che producono quella forza e quella obbedienza totali e totalitarie senza le quali, da che mondo è mondo, nessun popola ha mai toccato la vittoria”. (Corriere della Sera, 17 maggio 1970)

Gianni Brera e Pelé. “Il calciatore, celebre o no, è come tutti figlio di mamma. Non è nato calciatore, è nato uomo; e come tale venendo al ondo, non era molto più d’un grinzoso e violaceo ranocchietto pieno di fame e di cruccio. Un solo calciatore, che io mi sappia, è stato subito giudicato bom da bola dal padre, che pure viveva pedatando: il negro brasiliano Pelé”.
La citazione dissidente 

“Chi non sa scrivere in piedi, moralmente parlando,
è uno che imbroglia, che non obbedisce al suo dovere, un facilone
che bracca il successo e non la verità dolente ma sovrana della Scrittura”.

Giovanni Arpino

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