Un giro per gli Alburni, le montagne da sfondo
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Fino alla fine dell'Ottocento degli Albumi le cose più conosciute erano i briganti, la neve per i sorbetti e pregi e difetti dei primi ristoratori dell'età moderna. Perché dalle "Nares Lucanae" si doveva passare per forza andare verso Calabria e Sicilia. Nella sosta obbligata dei faticosissimi viaggi si mangiava robusto. Salsicce e capretti arrostiti erano le specialità di casa Rosolia, i tavernieri dello Scorzo. E così delizie e croci degli Albumi erano ben conosciute nella parte d'Italia compresa tra Napoli e Palermo.
Tra i piaceri entrano di diritto le lucaniche, ovvero quelle salsicce di maiale cotte sulla brace con i broccoli che, eravamo nel lontano 58 a. C., piacquero così tanto Cicerone che non ne potette fare a meno di parlarne all'amico Attico. Lo scrittore latino era in fuga da Roma per andare a salvarsi la pelle nascondendosi da Sicca a Vibo Valentia. In una Calabria già allora prediletta dai latitanti. Era, per il grande oratore, un momento assai triste. Si fermò alla taverna "dello Zuppino": che serviva i viandanti. "sub pinus", così per quei maestosi pini che vi crescevano e l'ombreggiavano d'estate. Delle stesse salsicce ne parla nel libro 23 anche Marziale. Accresciuta attenzione vi dedicò (molti secoli dopo) il barone Antonini, versatile poligrafo e geografo riportando anche scritti di Varrone ed Isidoro. Con Cicerone anche illustri personaggi hanno percorso questi luoghi e sono passati per gli Albumi: da Virgilio, a Caligola (mentre fuggiva pazzo di dolore per la morte della sorella Drusilla) e poi Alarico e Cassiodoro. Quasi tutti avevano una certa fretta e dovevano scappare ma la particolarità dei luoghi e dei cibi, non sfuggì a nessuno di loro.
Con un seguito di quattro servitori vi arrivò anche Virgilio. Si fermò ad osservare la natura e non disdegnando affatto le taverne, i vini ed il dialogo con i contadini. Ed è qui che nota le mandrie bovine muggenti per la puntura di una particolare mosca, nonché il carattere quasi torrentizio del Tanagro. Tanto che lasciò, nelle Georgiche, scritto il poeta: "impazza di muggiti l'etere scosso e le foreste e le rive dell'arido Tanagro... ".
Furono anche queste reminiscenze presenze illustri a far fiorire quella folta schiera di intellettuali che nacquero nei paesi abbarbicati agli Alburni. E basterà per tutti ricordare l'umanista più illustre, quel Giovanni Albino nato nell’odierna Castelcivita, ma detta allora anche Castelluccia, "maestro e librero maggiore". o bibliotecario, del duca di Calabria Alfonso D'Aragona; accademico, ambasciatore, poeta, che scrisse le memorie delle guerre aragonesi "quorum magna fuit". Giovanni Albino ebbe l’investitura dell'abbazia di S.Angelo a Fasanella e poi il beneficio di Santa Maria a Corte a Castelcivita. E Gerolamo Brittonio di Sicignano, al servizio di Costanza D'Avalos e poi di Vittoria Colonna, petrarchesco come portavano i tempi, nella raccolta Gelosia del sole (1519), e nel Trionpho al quale parthenope narra et canta gli gloriosi gesti del gran Marchese di Pescara, Pavia 1525, dove riafferma orgogliosamente la sua origine nella Sicinii Hieronimi Britonii Sicini Ecloga cui titulus est Delphia quam Dolipus pastor amar, pubblicata a Venezia nel 1550. Ed anche nel mito si sconfina cori quello che riporta Plinio, lib. 31, a proposito della gemma Syrtites: è gialla, assomiglia ali 'oro, ed è molto bella a vedersi. Ma lo scrittore latino forse si è confuso con quelle pietre marmoree, miste di vari colori, usate per costruire gli altari delle molte chiese degli Albumi. La gemma o la pietra si trova ancora oggi, a Laurino come pure a Sicignano. E' uno dei materiali prediletti oggi dallo scultore sardo altavillese Gelsomino Casula.
Degli Albumi fu costretto ad occuparsi anche il toscano terribile ed uomo forte della corte borbonica, Bernardo Tanucci. Sia per esigenze militari che per la passione della caccia si dovette incrementare l’allevamento della razza governativa. Cosi, nel 1776, nei dintorni di Corleto Monforte, vi furono portati 700 puledri "do' ré" e così in gran parte dell’Alburno fu proibita la caccia. Ma Bernardo Tanucci si lamenta subito della spessezza dei boschi "...ove i lupi li mangiano, e li fiumi ove teneri affogano...". E gli Alburni i sovrani napoletani dovevano proprio amarli se man davano a prendere le sue nevi per fame il celeberrimo sorbetto napoletano. Nel secolo XVIII, certamente perpetuando una vecchia usanza, carovane di muli ridiscendevano d'estate gli aspri sentieri dei monti alburnini con i loro carichi di neve, diretti alla costa, dove la neve prendeva la via del mare verso la capitale del regno per stimolare la gestione e placare l'arsura della sete estiva. E perché l'Alburno si chiama così? Come scrisse il latino Festo, nell’Epistola IV, "AIburno, monte bianco, si può credere che sia stato chiamato così dal suo candore". Alburnus, albus mons. Sembrano i versi di una canzone medioevale. Quella che sento suonare quando gli spifferi di tramontana ti oltrepassano e dopo essersi incuneati attraverso il valico di Sicignano (le antiche Nares), si vanno spegnere a mare, non prima di aver messo a dura prova chiome di alberi e tetti di case.
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