Liscio cilentano, una originale storia di emigrazione romagnola nel profondo sud

di Oreste Mottola



 

Simona Ridolfi, docente scuole superiori ed ideatrice della "Via Silente" 


Una “Romagna mia” anche nel cuore del Cilento. Cominciò da contrada Coppola, frazione di Castelnuovo Cilento. Hinterland di Vallo della Lucania. Colpa del tabacco, coltura nuova e promettente, ma che abbisogna di professionalità specifiche. Maestri nel lavorar la terra natia, già abili agricoltori, i romagnoli si misero al servizio dei nobili possidenti locali. I cilentani chiamarono “coloni” i nuovi arrivati dalla Romagna. E questi ararono, dissodarono, bonificarono. Sul finire dell’Ottocento, molte famiglie provenienti dalla Romagna, lasciarono la propria terra per trasferirsi in Campania, Basilicata, Calabria. Questo flusso migratorio, invertito rispetto alla tradizionale rotta sud-nord, durò fino ai primi decenni del nuovo secolo, trapiantando nel meridione intere casate romagnole: dai nonni ai nipoti e, in alcuni casi, dai braccianti che già prestavano servizio presso tali famiglie di coltivatori. Ed in singolare contrasto con la tradizionale cupezza cilentana e meridionale i “Romagna” portarono anche la gioia di vivere. E così i telai, con le foglie di tabacco stese come panni al sole, nelle aie dei grandi casolari dove i romagnoli - i Giunchi, gli Aldini, i Ridolfi, i Masini, i Dell’Amore - diventano come delle balere. E si ballava in quei casolari, lo spazio rubato ai telai del fogliame, sulle note di una chitarra, di una fisarmonica, forse di un organetto. Così il folclore cilentano si mischiò con i ritmi che poi i Casadei ci faranno conoscere. L'integrazione funziona bene. I ragazzi romagnoli in età da morosa invitavano le giovani cilentane, correvano i baci rubati dietro i pagliai. La canzone - inno “Romagna mia” ancora non era stata composta da Secondo Casadei, nel Cilento arrivò verso la fine degli anni Cinquanta, inno e malinconia per tutti quegli immigrati giunti ad un'età che non favoriva un viaggio di ritorno. Ce n’erano tanti invece che partivano in quegli anni, di cilentani, mogli e figli a casa, destinazione Germania, a cercar lavoro. Intanto quell’integrazione tra cilentani e coloni, che forse bisognerebbe raccontare a quelli che ancora puntano il dito contro “il terrone”, assicurò discendenza romagnola in terra cilentana. E in questa terra ancora oggi si balla il liscio, si sfornano piadine e cappelletti. Lo si faceva in tempi non ancora in odore di globalizzazione. Lo si fa ancora oggi, ma come se fosse “cosa propria”, patrimonio culturale non importato. È diverso.
LA STORIA DI DOMENICA. Ecco una storia: Domenica “Minghina” Ridolfi è figlia di coloni, nel 1935 aveva sposato un giovane cilentano, Antonio Lettieri. Una velocità ineguagliabile ad infilzare foglie di tabacco sui lunghi aghi, così come era insuperabile il suo caffè, Minghina si è spenta nel 2006. La schiena piegata dagli anni ma dritta nell'orgoglio, nel cuore il dolore di aver visto alcuni dei suoi figli andare via prima di lei. Il peggior dolore. A qualcuno diceva di essere nata in Romagna, e che era l'unica a saper parlare il dialetto romagnolo vero, perché era quello più antico. Poco importava se nel suo parlare, romagnolo e cilentano si confondevano e si sovrapponevano. Minghina era orgogliosamente romagnola. Oggi sarebbe bello, nonchè giusto, se un comune della Romagna ma anche del Cilento portasse su quei luoghi una lapide, o una targa, a ricordo di quella gente che un giorno infilò cultura e tradizioni in una valigia, e li seminò altrove.
Sarebbe un piccolo gesto, ma di grande valore storico e simbolico: siamo stati un popolo di migranti, non dimentichiamolo, senza un’etichetta di provenienza o che indichi esclusivamente il sud d'Italia, o del mondo.
È bellu lu Ciliento, sole e viento, non solo spiagge ma borghi intatti e silenziosi, dove gli anziani sui gradini delle case sembra siano già pronti per il ciak di un film d’epoca. Dove l'abbandono è un fermo immagine sul passato. Il pane-biscotto fatto in casa, condito con olio e origano, o i fusilli. 
Sapori semplici e veri. Altra cosa rispetto alla piadina e alla  porchetta, alla salsiccia o al cicciolo, protagonisti di sovrabbondanti sagre in riviera, ma che forse poco esprimono dei sapori di questa terra.
UN PO' ROMAGNOLA E' ANCHE LA VIA SILENTE. La "Via Silente" ’hanno tracciata, in sella alle loro biciclette, due coraggiose ragazze cilentane, Simona Ridolfi e Carla Passarelli. È soltanto l’inizio di un percorso cicloturistico lungo seicento chilometri, dove borghi, antiche chiese, solitarie fontane d’acqua fresca, sono grani di rosario uniti dai muretti in pietra, dai campi di ulivi e di castagni. Ci vuole “gamba buona” per salire sul Cervati, ma certi panorami vanno conquistati. Occorre calma, ed anche sacrificio, per affrontare certi “cammini”. Si, perché ci sono cammini possibili anche nel nostro Paese, al pari di quello percorso da migliaia di pellegrini in Spagna, diretti alla tomba di San Giacomo, utile non solo allo spirito, ma anche all’economia dei centri che attraversa.
D’altra parte ci si sente un po’ pellegrini durante l’ascesa al santuario della Madonna di Novi Velia, posto in cima al monte Gelbison, terrazza sul Cilento. Da lassù la visione sull’anello Silente, dal mare agli Alburni, fino al Vallo di Diano. Sui tanti chilometri percorsi, ultima tappa di un viaggio in questa meravigliosa terra.
C’è ancora da fare, dice Simona. È necessario creare una rete di strutture ricettive che entrino in sintonia col progetto, ne condividano le finalità, al fine di fornire supporto adeguato ai “viandanti”. Sarà inoltre necessario promuovere il percorso, magari dotarlo di segnaletica non invasiva, proprio come il Cammino di Santiago. Simona, che è anche stimata professoressa, è una di quelle cilentane toste, discendente di Minghina che nel suo parlare, aveva romagnolo e cilentano che si confondevano e si sovrapponevano.

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