ROCCO SCOTELLARO ED IL CILENTO. Quella “rivolta insubordinata” dei contadini di Montano Antilia che avrebbe voluto raccontare ma non ne ebbe il tempo

Montano Antilia, i nuovi contadini 
Tricarico, "segni" contemporanei per Rocco Scotellaro 





[di Oreste Mottola] Montano Antilia, Basso Cilento. Una storia di Filadelfi, una sorta di comunisti dell’Ottocento, in zone più ricchi di preti e monaci(tanti) che di operai, inesistenti. Teste calde che aizzano gli animi. E poi il rincaro del prezzo del sale, allora elemento scarso e fondamentale per la sopravvivenza alimentare (mica c’erano i frigoriferi), gli irruenti briganti i fratelli Capozzoli (da Monteforte Cilento), le bellissime signore  lucane Tambasco (mamma e tre figlie, le cronache sono concordi sul punto), ed il delizioso sorbetto di neve conservata in montagna offerto alle riunioni sediziose. Era il 15 luglio del 1829 . L’iniziativa fu di Arcangelo Dagnino (marito di una delle avvenenti Tambasco) che aveva portato con sé un calamaio e, al termine del consesso, vergò  un Proclama in cui si chiedeva l’introduzione della Costituzione francese  e la riduzione del prezzo del sale, bene di prima necessità per conservare  gli alimenti in tempi in cui il frigorifero era ben lungi dall’essere ideato. Dimostrò astuzia politica Dagnino legando un obiettivo ideologico (niente di meno che l’introduzione della Costituzione francese) ad uno terra terra come era il prezzo del prezioso sale. Non che fosse filato tutto liscio, come in ogni assemblea  pre-rivoluzionaria che si riguardi. Alla prima stesura Domenico Capozzoli 

e Giuseppe Ferrara, un rivoltoso discendente da una famiglia di comunisti, (beh, sì, c’erano già)  si misero di traverso perché il Proclama appariva loro troppo liberale e  non era presente la parola “popolo”. Ci fu anche una discussione sul che  fare nel caso l’insurrezione fosse andata a buon fine, e alcuni visionari  si sbilanciano affermando che, in caso di vittoria, la monarchia sarebbe  stata abolita. Fu così che da Montano Antilia, duemila abitanti allora ed oggi, quella notte fu lanciato  l’attacco al cuore dello Stato borbonico. L’evento, dimenticato dai più, come tanti altri è stato tramandato da quello straordinario “conservatore” delle memorie del popolo antagonista che è Giuseppe Galzerano, uomo double face che unisce l’editore e storico inquieto con il placido aspetto di professore meridionale. E come sempre succede in queste storie la reazione del potere, in questo caso il possente regime borbonico rimesso in sella dal Congresso di Vienna è esemplare con l’accusa di aver dato vita ad una pura banda rei di aver svaligiato da una chiesa di San Giovanni a Piro: ”calici, paténe, ed altri sacri vasi ch’erano stati rubati da que’ sacrileghi con altri argenti ossiano posate, calamaj, bugìe, caffettiere ed altre simili cose”.  Ladri e pure sacrileghi, altro che rivoltosi politici seppure delinquenti. Nelle “notizie interne” del Giornale del Regno delle due Sicilie del 5  luglio di quell’anno un anonimo cronista di regime scriveva: “Un’altra importante operazione è stata pure eseguita nei giorni ultimi di luglio, egualmente dovuta alle misure energiche dell’Ispettor Comandante la Gendarmeria Maresciallo del Carretto, ed a quella celerità di operare che  gli fa tanto onore. Erasi da lui risaputo che molti oggetti preziosi,  involati nel saccheggiamento di San Giovanni a Piro dalla rapace masnada di rivoltosi, che sulla fine di giugno recò tante molestie e danni a parte del Distretto di Vallo, giacevansi occultati presso un tal D. Pietro Bianchi del comune di Montano, uno dei più aderenti alla Masnada medesima; e quindi in conseguenza degli espediti provvedimenti del lodato Maresciallo, preso ed arrestato D. Pietro, si venne a conoscere che colla costui intelligenza e cooperazione gli oggetti stessi racchiusi entro un barile eransi da que’ facinorosi nel loro passaggio per Montano sepolti  nel terreno d’un giardino di D. Vincenzo Galietti, degno nipote di esso D. Pietro. Infatti fu ivi dissotterrato quel barile…”. Quindi refurtiva ritrovata, ladri altro che motivazioni politiche.  Che fosse una prevalentemente rivolta contadina è certificata da una circostanza. Furono in molti ad esprimere dubbi che una rivoluzione si potesse iniziare a giugno. Lo stesso Ferrara nutriva qualche perplessità, e  forse non aveva tutti i torti, perché si era nel periodo della mietitura e  i contadini erano tutti al lavoro nei campi, molti addirittura lontano dal  paese. Chi sarebbe insorto se non avessero trovato nessuno lungo la loro  marcia? Non saranno gli unici nella storia, da queste parti, a pensare la  rivoluzione in giugno, quando la natura si risveglia dal letargo invernale  e con essa gli uomini e le loro passioni: Carlo Pisacane, senza far tesoro  della lezione di trent’anni prima, sarà ucciso il 2 luglio del 1857 a  Sanza dalla Guardia urbana Sabino Laveglia mentre i contadini erano a mietere il grano nelle Puglie e le donne in chiesa per la messa patronale.  Anche un altro partecipante all’assemblea notturna, Nicola Gammarano,  sostenne che non era il caso di promuovere una rivolta, ma fu contestato  da Galotti e dallo stesso Ferrara, che nutriva sì dei dubbi ma sulla  tempistica e non sulla necessità dell’insurrezione armata.  Fu la prima volta che Montano Antilia finì su un giornale e il calendario  segnava il 5 luglio 1828, nel tempo di quando si mieteva e si “pesava” con la trebbiatura effettuata premendo sui covoni di grano posti sulle aie. Torniamo ai fatti. Ed all’assemblea. Alla fine, trovato l’accordo sul testo, i cospiratori decisero di andare a  leggere il Proclama in pubblico a Palinuro, sul mare, e così l’avventura  dei rivoltosi cilentani poté finalmente avere inizio. Quando ripassarono  per Montano Antilia, la sera del 30, trovarono una piacevole sorpresa:  dalle finestre di diverse case facevano bella mostra le bandiere bianche  degli insorti. Analoga accoglienza fu riservata loro a Licusati, Centola,  Marina di Camerota. Non così a San Giovanni a Piro, dove la popolazione  non si unì, anzi fece resistenza e alcune abitazioni, tra cui quella del  sindaco, vennero saccheggiate. E’ a questo episodio che fa riferimento il  Giornale delle Due Sicilie nell’articolo del 5 luglio, trattando i  rivoltosi anti-borbonici come una qualsiasi banda di malfattori. 

Quello che il giornale non racconta è cosa fosse avvenuto nel frattempo e  cos’altro si stesse preparando. Per evitare di ripetere la disavventura di San Giovanni a Piro, i rivoltosi avevano fatto precedere l’arrivo nel comune di Bosco da una lettera indirizzata al sindaco. Scrivevano i rivoltosi, che si firmavano “i nazionali”: “Sig. Sindaco, a vista della presente fate subito pronte cinquecento razioni per cinquecento nazionali e siete avvertito di non fare appartare persona alcuna dal paese,  assicurandogli sotto la parola di veri spartani per la loro salvezza.  Avvicinatevi però voi con i galantuomini ed il parroco a ricevere la  bandiera della Costituzione di Francia, in caso poi che vi negate, vi succederà sicuramente come in questo momento è accaduto al vicino indegno paese di S. Giovanni”. 

Questa volta non fu necessario ricorrere alla forza. I cittadini li  accolsero sventolando rami di ulivo e il pranzo ai cinquecento ribelli che stavano attraversando il Cilento fu offerto con grande entusiasmo. I malcapitati cittadini di Borgo pagheranno però molto cara quell’adesione così entusiastica alla “rivolta dei Filadelfi”. La repressione, guidata da un ex liberale passato armi e bagagli con i borboni, il Comandante Francesco Saverio del Carretto, sarà durissima. 

Il 7 luglio 1828, due giorni dopo l’articolo che abbiamo preso come punto  di riferimento temporale, Bosco fu dato alle fiamme e completamente distrutto, e i terreni furono cosparsi di sale per far sì che non fossero più fertili per le popolazioni locali. Il 28 luglio re Ferdinando II firmò la soppressione definitiva del Comune. Il Regio decreto all’articolo 2 recitava: “Né essi né altri potranno ricostruire mai più le abitazioni che formavano l’aggregato di quel Comune, né in quel sito ove esisteva, né in altro dell’antico suo tenimento”. Chi pagò  più duramente per la rivolta fallita fu la famiglia Bianchi, che aveva ospitato in località Piano Guglielmo la riunione in cui fu decisa l’insurrezione: la bellissima Alessandrina Tambasco fu condannata a dieci anni di “ferri”, vale a dire di carcere duro, che sconterà tutti senza riduzioni di pena,  perché nella notte della rivolta aveva cucito delle coccarde bianche che  gli insorti avevano indossato, un fratello sarà fucilato, la madre e le sorelle anch’esse incarcerate. Il marito Pietro Bianchi morirà di stenti in galera. I tre fratelli Capozzoli fuggirono in Francia prima, in Corsica poi. Tornati in Cilento, saranno arrestati un anno dopo, assassinati e le loro teste, conficcate in un palo, portate in giro tra i paesi del Cilento perché la loro visione servisse da monito per chi avesse intenzione di  ribellarsi ancora. In tutti i paesi che i vincitori borbonici  attraversarono trionfanti la popolazione fu costretta a inginocchiarsi al loro passaggio. A Montano Antilia non si inginocchiò nessuno. Montano paga un prezzo altissimo alla sanguinaria repressione dello spietato generale Francesco Saverio Del Carretto, al servizio della dinastia borbonica. Dopo aver dato alle fiamme il paese di Bosco, uomini e donne di Montano vennero arrestati e condannati a pene pesantissime.

Tra le famiglie più colpite quella di Alessandrina Tambasco con il marito morto di stenti in carcere, un fratello fucilato, la madre e le sorelle condannate alla galera. Lei stessa condannata a dieci anni di ferri (tutti scontati) perchè, oltre ad essere una rivoluzionaria, citata finanche nella cronaca del «Giornale del Regno delle Due Sicilie», nella notte della rivolta aveva cucito delle innocenti coccarde bianche indossate dagli insorti... Mogli che accompagnano i mariti in catene trasportati al carcere di Salerno. Uomini che dall'esilio non tornarono mai più dalle loro figlie.

Storie di speranze e di altruismo, ma anche di feroci persecuzioni, di amore e di rivolte per fare l'Italia libera del risorgimento. Infine con l'unità d'Italia arrivano i riconoscimenti per gli «svantaggiati politici», con le pensioni a donne e a uomini che avevano dato il loro contributo alla lotta antiborbonica.

Rocco Scotellaro, colpito da queste vicende, voleva dedicare nei «Contadini del Sud» un capitolo a Montano, intitolandolo «La rivoluzione insubordinata», ma la prematura morte dello scrittore e poeta lucano non lo consentì. Fu questa, la “rivoluzione insubordinata” di Montano Antilia, che il poeta-scrittore lucano Rocco Scotellaro avrebbe voluto raccontare se la morte non lo avesse colto ad appena 30 anni, il 15 dicembre del 1953.  [riproduzione riservata]

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