Concetto Vecchio, Cacciateli! :Quando i migranti eravamo noi, Feltrinelli 2019 

L’autore 

Concetto Vecchio (1970), figlio di emigrati in Svizzera, è giornalista romano nella  redazione politica di “Repubblica” 



Dalla terza di copertina 

James Schwarzenbach, cugino della scrittrice Annemarie Schwarzenbach, è un  editore colto e raffinato di Zurigo. La sua è una delle famiglie industriali più ricche  della Svizzera. A metà degli sessanta entra a sorpresa in Parlamento a Berna, unico deputato del partito di estrema destra Nationale Aktion. Come suo primo atto  promuove un referendum per espellere dal Paese trecentomila stranieri, perlopiù  italiani. E’ l’inizio di una campagna di odio contro i nostri emigranti che durerà anni,  e che sfocerà nel voto del 7 giugno 1970, quando Schwarzenbach, solo contro tutti,  perderà la sua sfida solitaria per un pelo.  

Com’è stato possibile? Cosa ci dice del presente questa storia dimenticata? E come si  spiega il successo della propaganda xenofoba, posto che la Svizzera dal 1962 al 1974  ha un tasso di disoccupazione inesistente e sono proprio i nostri lavoratori, richiamati  in massa dal boom economico, a proiettare il Paese in un benessere che non ha eguali  nel mondo?  

Eppure Schwarzenbach, a capo del primo partito anti-stranieri d’Europa, con toni e  parole d’ordine che sembrano usciti dall’odierna retorica populista, fa presa su vasti  strati della popolazione spaesata dalla modernizzazione, dalle trasformazioni economiche e dal ’68. Fiuta le insicurezze identitarie e le esaspera. “Svizzeri  svegliatevi! Prima gli svizzeri” sono i suoi slogan, mentre gli annunci immobiliari  specificano: “Non si affitta a cani e italiani”.  

In una serrata inchiesta fra racconto e giornalismo, Concetto Vecchio fa rivivere la  stagione dell’emigrazione di massa, quando dalle campagne del Meridione e dalle  montagne del Nord si andava in cerca di fortuna all’estero. E in un viaggio nella  memoria collettiva del nostro Paese, nell’Italia povera del dopoguerra, raccoglie le  voci degli emigrati di allora e sottrae all’oblio una storia di ordinario razzismo di cui i  nostri connazionali furono vittime. 

 

Dal primo capitolo 

Non sapevo nulla quasi nulla delle baracche. Ho cominciato a studiare vecchi video.  Le tiravano su ai margini delle città, accanto ai cantieri edili, nelle zone industriali, al  riparo dagli sguardi dei borghesi. Erano prefabbricati di ruvido legno, dove si faceva  

la fila per tutto. Per stendere i panni umidi nel lavatoio comune, per cucinare sui  fornelletti alimentati con le bombole a gas, per andare al cesso, uno solo per  cinquanta cristi. Una mattina ho chiamato Luciano Alban, il presidente del Comitato  degli italiani all’estero di Zurigo, che era emigrato in Svizzera nell’aprile 1968, da  Montebelluna. Ne aveva memoria? “Oh, sì” mi ha risposto. “Costruzioni come ne  avrei visto anni dopo solo a Dachau e Auschwitz. Pensai: non voglio finire in un  simile ghetto”.  

Cosa voleva dire vivere inscatolati a decine in uno stanzone adorno come uno  scompartimento ferroviario di terza classe? Letti a castello che riempiono ogni spazio  libero. Pettini sporchi di forfora sugli stipetti. Tubetti di brillantina mezzo spremuti.  Pacchetti di sigarette senza filtro abbandonati su un tavolaccio di legno grezzo.  Fumetti stropicciati nascosti sotto i cuscini. Gli armadietti pavesati di ritagli di attrici  scollate, il petto generoso della Lollobrigida allineato all’effigie della Madonna  addolorata: la fede, che tutto leviga, appiccicata con lo scotch accanto alle stampe  color seppia dei figli lontano……  

Le baracche misurano l’avanzata impetuosa del capitalismo. Depositi di un’umanità  affittata, gli stagionali, che non hanno diritto a una casa, a cui è fatto divieto di  cambiare lavoro, di portare con sé la famiglia. In caso di licenziamento scatta  l’espulsione dal Paese. Se il capitalismo va in affanno si smonta la baracca. E ci sono  152mila stagionali in Svizzera, quasi tutti italiani. Scrive il poeta Leonardo Zanier:  “La condizione dello stagionale è al limite dell’umano, non sempre avvertita  coscientemente, ma che l’emigrato paga duramente in incidenti sul lavoro, in ulcere  gastriche, con l’alcolismo. Nelle baracche ognuno si fa da mangiare da solo, in  accettazione passiva, in risparmi feroci, sul mangiare, su tutto, per far studiare i figli,  che almeno loro non debbano fare questa vita. Nessuno si occupa di lui, non accresce  la domanda di asili e di scuole, non ha bisogno di cliniche ostetriche: la moglie  partorirà da sola al paese”.  

Ci sono stagionali che hanno tre figli e non ne hanno visto nascere nemmeno  uno……  

“Vengo da Avellino provincia, sono stagionale e la mia vita è uno schifo,” confessa  un giovane a “Quaderni dell’Emigrazione”. “In questa baracca viviamo in dodici per  75 franchi a testa. Non abbiamo altra scelta. Abbiamo cercato insieme agli amici di  affittare un appartamento, ma non ce lo hanno dato. Che sarà di noi? Ma se il governo  italiano non sa neanche che esistiamo”. “Ho il contratto annuale, mio marito invece è  stagionale, lui vive in una baracca dell’impresa, io divido una camera con tre 

ragazze,” racconta una giovane donna. “E’ quasi impossibile vederci e fare l’amore.  E poi c’è la paura che venga il figlio, in questi casi la polizia ce lo manda fuori dalla  Svizzera, perché gli stagionali non possono avere figli”.  

Le baracche quindi rendono ricco il padrone. Ci sono dormitori dove il proprietario  incassa anche 2500 franchi al mese, anche se dopo un po' le pareti si anneriscono, i  gabinetti si otturano, dalle docce non esce più un getto d’acqua decente……  Un ragazzo toscano squaderna la sua esistenza di baraccato separato, lui da una parte  e la moglie con la figlia tredicenne dall’altra, “quando ci incontriamo ci diamo un  bacio”. La figlia è qui come turista, in teoria non potrebbe starci, la Svizzera vieta i  ricongiungimenti, non vuole che gli stagionali mettano radici; il padre l’ha iscritta  comunque a scuola, alunna abusiva. Per un po' sembra che tutto fili liscio, la bimba  ha imparato in fretta qualche parola di tedesco e lui ha adocchiato un appartamento a  buon mercato, dove andare a vivere finalmente come una famiglia normale. Ma una  sera si è presentata la polizia degli stranieri. La bambina è fuorilegge, va riportata  subito in Italia. L’operaio tira fuori dal portamonete il decreto di espulsione sgualcito.  “Dove la mando?” si dispera. “Cosa faccio ora? Solo tra due anni maturo i requisiti  per il permesso annuale. Ma io ho appena dieci giorni di tempo per decidere”…..  La stampa italiana s’indigna che i nostri connazionali siano costretti a vivere in luride  bicocche dai muri scrostati, in mulini adattati a casolari, nelle stalle. “A Ginevra, a  Bardonnex, a Carougue, a Gradelle, a Grand-Canal, centinaia di italiani,” scrive  “l’Unità” nell’agosto 1963, “sono alloggiati in abitazioni incivili. In città, alle spalle  della ������������������[pista di pattinaggio ndr], sorge tra le erbacce un’autentica bidoville:  baracche di lamiera, legno e cartone. Là vicino degli emigrati abitano in un ex fienile  a due passi da un letamaio”. I direttori dei giornali di Milano e Roma inviano quindi  le loro migliori firme nelle baraccopoli. Come è possibile che gli svizzeri espongano i  cartelli “si affittano stanze, ma italiani esclusi”, si chiedono seccati. Giovannino  Russo del “Corriere” a Ginevra raccoglie la bile di un uomo emigrato da Piedimonte  d’Afile, nel Beneventano, la barba non rasata, gli occhi rossi. “Gli svizzeri non  amano gli stranieri a casa loro, e noi siamo stranieri e poveri. Non hanno mai fatto  una guerra e non conoscono cos’è la fame, perché se la sono dimenticata da secoli.  Ecco perché non ci capiscono”…..  

La baracca di Zollikon ha le pareti sbiancate di cementite. Due cugini calabresi con  dei gran barboni tessono una trapunta per ripararsi dal gelo..,Uno dei due dice, senza  levare occhi da ago e filo: “Tempo fa qui hanno ucciso un austriaco e gli svizzeri per  non sbagliare hanno scritto sui muri: “Italiani assassini” 

[dunque è proprio vero: ”prima gli italiani!”…a vivere in ghetti indegni di essere  umani e ad essere maltrattati e calunniati in modo indegno. Cfr con l’inchiesta dei  nostri giorni sui ghetti per immigrati ma in Italia in allegato “Ghetti d’Italia” CdS 8/6/2018]

Dal secondo capitolo  

Abbiamo reciso la memoria.  

Dal 1860 a oggi sono emigrati all’estero più di trenta milioni di italiani, ma nessuno  se lo ricorda più o fa finta di non ricordare, o ricorda in maniera selettiva. Non c’è  quasi famiglia che non abbia, o abbia avuto, un parente lontano, eppure abbiamo  rimosso l’indigenza degli anni più duri, e quel che il bisogno sommoveva….  Alla metà degli anni sessanta vivono in Svizzera più di 500mila italiani. Quando  scendono alle stazioni dai nomi ostici, Winterthur, Schaffhausen, Dietikon, posano  per terra un solo bagaglio: tutta la loro vita è stipata in quella valigia…..  Posta nel cuore d’Europa la Svizzera è la terra promessa, il Bengodi della piena  occupazione. Ma è anche un mondo ostile. Peraltro, senza sapere una parola di  tedesco, i nostri fanno i lavori che gli svizzeri non vogliono più fare: pulire i cessi  nelle stazioni, costruire il tunnel del Gottardo, l’autostrada Losanna-Ginevra, tirare su  le dighe nelle Alpi, lavare i piatti nelle cucine dei ristoranti, portare le valigie nella  stanza dei grandi alberghi, o servire ai tavoli, come il cameriere ciociaro Giovanni  “Nino” Garofali di Pane e cioccolata. Manodopera a buon mercato, di gente che non  ha pretese, solo una gran necessità di sbarcare il lunario. Sgobbano senza requie,  pagati a cottimo. C’è chi sfonda il limite delle cinquanta ore a settimana…….  Nel giugno 1948 l’Italia e la Svizzera siglarono un accordo bilaterale sul  reclutamento di operai. Era un patto che faceva comodo ad entrambi. La Svizzera  aveva bisogno di contingenti enormi di manodopera a buon mercato. L’Italia  scoppiava di disoccupati. La Svizzera accedeva a un vasto serbatoio di lavoratori  malleabili. L’Italia se ne liberava.  

L’accordo suddivideva i permessi di soggiorno in tre fasce: stagionale, annuale, di  dimora. Il permesso A allo stagionale, quello B all’annuale, il C per il soggiorno  permanente, il più agognato. Stabiliva la selezione del lavoratore non solo in base “a criteri professionali” ma anche “politici e personali”.  

Era un patto che puntava sulla reversibilità dell’afflusso, per garantire la massima  flessibilità al datore di lavoro rispetto all’andamento della congiuntura: contratti di  lavoro a termine, ma rinnovabili, per i lavoratori stagionali; per tutti gli altri contratti  annuali. Un sistema di accesso complicato, precario. L’emigrato non aveva diritto  all’assicurazione per la disoccupazione, né poteva cambiare lavoro o portare con sé la  famiglia. Perché?  

Le autorità svizzere erano terrorizzate dal fatto che il boom economico potesse  esaurirsi e non volevano ritrovarsi con migliaia di stranieri disoccupati sul groppone.  Questa temporaneità nelle assunzioni era stata fissata nel cosiddetto Rotationsprinzip,  il principio di rotazione, che regolamentava come una ruota l’afflusso di manodopera.  Si era assunti a tempo, il tempo del benessere. Se il benessere s’inceppava, la forza  lavoro poteva essere rispedita al mittente. I lavoratori stranieri vennero ribattezzati 

con un nome scelto non a caso: Gasterbeiter, lavoratori ospiti. Gli stagionali  arrivavano a marzo e tornavano a casa a dicembre. Il principio della rotazione non  prevedeva né integrazione, né inclusione, né tantomeno welfare. Come diceva Nino  Garofoli: “Lo stagionale è quel lavoratore che per i doveri è sempre posto in prima  linea e per i diritti sempre in ultima”………  

Nel 1962 spopolava la canzone della tedesca Cornelia Froböss, Zwei kleine Italianer.  Parla di “due piccoli italiani” che sognano Napoli, Tina e Marina che li aspettano,  così i due piccoli italiani stanno sempre in stazione, ogni sera ritornano per guardare  il treno che parte per Napoli”. Poi fanno i conti con proprietari di case che negli  annunci immobiliari specificano “Non si affitta a cani e italiani”, e fuori dei ristoranti  campeggiano le scritte “Mora verboten”, per tenere lontano i manovali lombardi e  veneti che nelle ore di svago giocano alla morra. Vietate le more. 

Dal quarto capitolo  

La saletta interna del ristorante Röngtenplatz a Zurigo rimbomba di voci. Cameriere  indaffarate dispongono nuove sedie, chi non trova posto resta in piedi, addossato alle  pareti. La National Aktion celebra il suo comitato elettorale. E’ uno di quei partitini di destra, votati per protesta da operai e contadini, che nessuno prende sul serio…..E’ il 22 settembre 1967. Restano pochi giorni per approvare le liste da presentare alle  elezioni politiche del 27 ottobre…  

Che ci fa lì uno come Schwarzenbach?...Schwarzenbach non ha mai pensato di fare  politica. Pubblica libri di nicchia, scrive romanzi storici che leggono in pochi, è un  aristocratico che tiene conferenze di letteratura, in circoli privati davanti a belle  signore….Quale demone lo spinge a mischiarsi al popolo? Fissa gli uomini nella sala  del ristorante Röngtenplatz. “Voglio essere sincero con voi”, esordisce. “Come prima cosa voglio dirvi che m’impegnerò senza risparmio per il referendum contro gli  stranieri avviato dal Partito democratico. Avete ragione: sono troppi. La Svizzera non  è più quella dei nostri padri, gli imprenditori pensano solo ad arricchirsi con  manodopera pagata due soldi, e intanto, per fare spazio a questa gente,, si  costruiscono sempre più case, più ospedali, più strade, ogni giorno che passa si  consuma suolo prezioso. Anch’io temo un Paese da dieci milioni di abitanti,  irriconoscibile, sfregiato urbanisticamente. La vostra battaglia è anche la mia….Mio  nonno è stato un pioniere dell’industria tessile di Thalwil, con filiali in 14 paesi. Mio  padre Edwin, che ha fondato la Swissair, era un colonnello dell’esercito. Io ho il  grado di maggiore e da giovane mi sono convertito al cattolicesimo, mentre voi siete  in maggioranza protestanti. Ho sempre avuto simpatia per il dittatore Franco, perché  il grande pericolo è dato dai comunisti. Mi chiedete se sono di destra? Certo che sono  di destra (risate in sala), ma penso che i concetti di destra e sinistra oggi abbiano  poca importanza. Quello che conta è il volere del popolo, che nessuno ascolta più  veramente”

Dal quinto capitolo  

Tschingg!”. Così venivano insultati gli italiani. Tschingg è sinonimo di persona  chiassosa, pigra e stupida. Viene dal gioco della morra, che i nostri emigranti  giocavano nei bar e nelle mense delle fabbriche, e siccome era il cinque il numero  che più spesso veniva evocato, il suono di quel “cinque” veniva associato a  “tschingg” : un’offesa che nelle versioni più cattive si trasformava in “Sau-tschingg”,  porco-italiano……  

Gli svizzeri non sopportano di essere toccati, non concepiscono i baci sulle guance  che si scambiano i meridionali quando si incontrano, sono soliti salutare lo  sconosciuto se lo incocciano a passeggio lungo il lago, invece l’italiano saluta solo  chi conosce, lo svizzero non vive il tempo libero per strada, non gesticola quando  parla, non alza la voce, non parcheggia in doppia fila, mentre guida mette sempre la  cintura, non ascolta la radio a tutto volume abbassando il finestrino della macchina… se vuole incontrare un amico fissa prima un appuntamento telefonico con l’orario  preciso (“alle 14.50 in tale posto”), a Natale ha già prenotato le ferie estive, non butta  cartacce per terra, non piazza la sedia davanti casa per prendere il fresco, non fissa  con cupidigia le donne, se una donna esce da sola la sera non è lui indice del fatto che  cerchi avventure….Un popolo pragmatico, diffidente verso le utopie, solido e  discreto: questi sono gli svizzeri. Potranno mai andare d’accordo due popoli così  diversi?  

Circola questa barzelletta: “Se per strada vedi due persone, uno svizzero e un italiano,  come distingui lo svizzero? E’ quello che ha un pugnale puntato nella schiena!”. Gli  italiani hanno fama di girare col coltello, di essere attaccabrighe, di infrangere le  leggi. Ma la percezione fa premio sulle statistiche. Non è vero che commettono più  crimini degli svizzeri. Lo conferma persino Ludwig Höner, il funzionario della  polizia degli stranieri di Zurigo: “Bisogna onestamente ammettere che per quanto  riguarda la criminalità gli italiani non sono certo quelli che ci danno più da fare. Gli  ungheresi per esempio sono molto più pericolosi. Degli italiani possiamo dire che  nell’insieme si comportano bene” 

Dal sesto capitolo  

Anche la Svizzera è stata povera,  

Dalla metà dell’Ottocento alla Prima guerra mondiale emigrarono in 400mila.  Montanari e contadini indigenti a cui i Comuni pagavano il viaggio, pur di  liberarsene. Stipati sulle navi in rotta verso l’Argentina, il Canada, gli Stati Uniti  dove fondavano paesi che si chiamavano Berne, Lucerne, New Glarus. Sapere che la  Svizzera ha avuto i suoi ultimi che cercavano un futuro migliore all’estero ci fa  impressione. Anche la Svizzera si è dimenticata della sua storia

  

Dal decimo capitolo  

Gli stagionali, muratori, selciatori, braccianti agricoli, camerieri, portieri d’albergo,  operai nell’industria alimentare, che rendono prospera la Svizzera, dove li tengono i  figli, visto che per la legge locale non possono risiedere nel Paese?  Ci sono tre opzioni: o restano nei Paesì di origine, accuditi da nonni e zii; o finiscono  in uno dei tanti istituti sorti al di là della frontiera, nel Varesotto, nel Comasco, trattati  come orfani; oppure li si porta con sé in Svizzera, ma chiusi a chiave tutto il giorno  con l’ordine di non fare rumore, di non farsi male, mentre mamma e papà alle sei del  mattino escono di casa per andare a lavorare. Segregati nelle soffitte, in minuscoli appartamenti, piccoli reclusi come Anna Frank .  

“La Tribune de Lausanne”, in un articolo del 12 gennaio 1971, calcolerà tra i 10 e i  15mila il numero dei minori clandestini….Nessuna delle tre opzioni rappresenta una  soluzione, e aggiunge solo dolore a dolore. Le nonne, giù al paese, sono sovrastate  emotivamente dal compito, non hanno energie sufficienti, nascono incomprensioni,  difficoltà nei rapporti. E i genitori, lontani e impotenti, sono sopraffatti dai sensi di  colpa. Quando si rincontrano, i figli non riconoscono più i padri, li sentono estranei.  Chi non regge la lontananza prova ad arrangiarsi, usando lo stratagemma del visto  turistico; i bambini tornano in Svizzera grazie ad un permesso della durata di sei  mesi, ma è una legalità illusoria. Alla scadenza del permesso puntualmente suonerà  alla porta un agente della polizia degli stranieri che non vorrà sentire ragioni; il visto  è scaduto, la legge è legge, il bambino deve tornare in Italia e così via. Indifferente al  fatto che in quei sei mesi il bambino abbia frequentato la scuola, stretto amicizia,  fatto i compiti, consumato la merenda, scambiato figurine Panini coi coetanei  svizzeri. Si è riabituato ad avere con sé la mamma e il papà e ora un poliziotto cattivo  è venuto a separarli. La legge non risparmia neppure i neonati……  Anche l’emigrato con lo status di lavoratore annuale deve sottostare a delle  restrizioni. La polizia degli stranieri valuta le domande di ricongiungimento caso per  caso…Moltissimi emigrati, scoraggiati dalle restrizioni, preferiscono quindi affidare  ai parenti in Italia i propri figli…..  

Messi alle strette dalla polizia degli stranieri, i bambini non in regola  improvvisamente spariscono. Si congedano dagli amici dicendo che torneranno in  Italia, i genitori davvero li riportano oltre frontiera, alla dogana i poliziotti prendono  nota che la legge è stata rispettata, l’iniquo diritto ha trionfato. Qualche giorno dopo, però, quella stessa macchina varca all’inverso il confine con un figlio rannicchiato tra  le valigie. “Non fare rumore”, lo istruiscono…Dice Catia: “I miei genitori fecero  finta di riportarmi al paese, ma dopo un po' rientrarono, nascondendomi nel  portabagagli…..Per anni sono stata rinchiusa dentro una mansarda. Non potevo  neppure affacciarmi alla finestra per paura che mi scoprissero i dirimpettai. Potevo  solo stare sul letto a leggere. Il pavimento era di legno e scricchiolava. Mi dovevo 

quindi muovermi con circospezione. Facevo i miei bisogni in un orinatoio, per evitare  che lo scroscio dell’acqua dello scarico insospettisse i vicini. A ventuno anni. Quando  me ne sono andata via da casa, l’ho fatto per uscire da una gabbia, ma alla fine mi  sono accorta che la gabbia era ormai dentro di me”.


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