ROCCO SCOTELLARO, CINQUE ANNI DI PERMANENZA A SICIGNANO DEGLI ALBURNI



 Era un buco come il mio paese. Potevo soltanto dire una cosa nuova agli amici: che da una finestra del convento avevo visto su quella rotabile [è la Statale 19, ndr] passare i corridori del Giro d’Italia , che non toccavano mai il nostro paese”. E poi: "...Sarebbe ritornato alla sua terra, alle avventure di sempre, tra i boschi e le pietre del suo paese dove avrebbe aspettato il regno della morte, solenne, come gli si doveva, con guardie gigantesche e bestie nere.." (L’Uva Puttanella - Laterza - 1954) .

di ORESTE MOTTOLA 




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Le storie di Carlo Levi e di Rocco Scotellaro hanno cominciato a scorrere in parallelo dal 1935. Carlo Levi da confinato politico arriva in Lucania, da Grassano poi passa ad Aliano. Erano gli stessi anni nei quali il dodicenne Rocco Scotellaro scopre lo studio e, come tanti, “mima” una vocazione religiosa e giunge presso i cappuccini del convento di Sicignano degli Alburni. Il Sud che si svelava nella sua ancestralità gli si parò davanti agli occhi. Così come pure al medico – pittore torinese. Sicignano, qui Scotellaro trascorre alcuni anni della sua giovinezza ospite dei Cappuccini, dove frequenta le prime classi del ginnasio. Possiamo dire che qui ha inizio la sua vita pubblica, quella che terminerà diciotto anni a dopo a Portici. Rocco vivrà per trent'anni Nato da padre ciabattino e madre scrivana e casalinga. Dalla madre prende l'amore per le lettere, dal padre quello per il lavoro. Studia per poco tempo a Tricarico, poi il padre intuendo le sue capacità, e speranzoso in un riscatto sociale tramite lo studio lo manda a malincuore suo, e soprattuto di Rocco a Sicignano degli Alburni, dai preti come si usava allora, unica strada per chi avesse in animo lo studio. Continuerà poi a Cava dei Tirreni, Trento, Roma. Con passaggi a Tivoli, Matera e Potenza. Alla morte del padre decide di tornare nella sua terra, e qui comincia il suo lavoro politico e sociale. La condizione dei contadini è di miseria pura. Per loro smetterà di applicarsi esclusivamente sui libri. Rocco è il poeta "della libertà contadina", come lo descrisse Carlo Levi, ma come spesso accade poco lo si è letto, colpa anche di miopi editori che non hanno mai pensato ad un piano editoriale vero sulle opere che abbracciano il romanzo, la poesia, l'inchiesta e le epistole. E i suoi luoghi di formazione, tra i quali c’è Sicignano degli Alburni. "Io sono uno degli altri...". L’ho visitato il convento dei Cappuccini di Sicignano dove Rocco bambino studiò. Mi accompagnano la giornalista Margherita Siani, la studiosa Francesca Troisi ed il preside Baldassare Chiaviello.

Era da qui che RoccoScotellaro osservava gli Alburni, costruendo il suo sapere e modellando la sua sensibilità.

Era da qui che tantissimi ragazzi come lui si sono formati, studiando in un luogo fucina di conoscenza. Una meraviglia che inorgoglisce chiunque lo consideri un elemento di identità propria. È imponente, dormiente, bellissimo.

Intorno a questo convento c'è il sistema di vita dei suoi abitanti, votato all'autosufficienza, quindi terra, orti, acqua, ma anche preghiera, meditazione.

Fuori dai "rumori sociali" ci siamo ritrovati a discutere ognuno con le proprie e diverse conoscenze, ma anche con i diversi approcci derivanti dalle nostre #professioni, tutti con l'emozione, quella unica, di toccare un mondo straordinario. Un tuffo catartico in quel mondo indagato da Scotellaro con la sua poesia, i suoi scritti ma anche con il suo credo #politico, vicino agli ultimi, per lui che si definí "uno degli altri".

La struttura del Convento è imponente, nella nostra zona solo la Certosa di Padula è più grande. Da due anni la struttura è di proprietà comunale ed anche qui si spera nei fondi del Pnrr per arrivare al recupero completo. Sulla carta sembrano non esserci problemi. Con la firma di un atto pubblico sottoscritto davanti al notaio Luca Restaino è stato sancito il passaggio ufficiale di consegne del monumento storico tra i Padri Minori Cappuccini di Basilicata-Salerno e il sindaco della città alburnina. «Un passaggio - spiega Felice Pastore, direttore del Gruppo archeologico di Salerno - che si concretizza dopo lunghi e travagliati anni lavoro con il trasferimento al demanio comunale di un luogo simbolo della storia locale». Secoli di storia dunque, racchiusi nel monumento datato 1572, ora di proprietà demaniale, custodito gelosamente per secoli dai monaci francescani di Sicignano che lo abitavano, adornandolo di affreschi e tele cinquecentesche. Convento sul quale palazzo di città è a lavoro da qualche anno per realizzare un importante progetto di restyling dell’area storica. «Un viaggio per salvare la memoria storica di un luogo serafico - chiosa Pastore - che sottolinea come il convento sia stato sede di una scuola che vide la presenza, da giovani studenti, di numerosi scrittori oltre Scotellaro. Rammento, solo per fare un esempio, l’altavillese padre Candido Gallo, che per decenni è stato il Cappellano degli ospedali salernitani».

Era la dura vita trascorsa a Sicignano degli Albumi, dove frequentò la "prima ginnasio" nel Convitto Serafico dei Cappuccini, che fu costruito sulle bocche delle sorgenti d'acqua, che venivano fuori al punto dove la corona di roccia finiva e cominciavano le coste di terra con gli alberi. Gli Alburni erano cerei a vederli, ma pesanti, massicci, come elefanti. In mezzo a loro, ero sempre a casa mia, perchè essi sono il gradino sul mare e il piano. Ebbi una stanzetta sul chiostro, ma nel cielo erano gli Alburni,notte e giorno alla finestra. La mia stanzetta era come quella dei padri, in un incrocio di corridoi dove mi piaceva farmi prendere dal vento che vi giocava sempre ed era tutti i monelli della mia strada" (L’Uva Puttanella p.21). il padre, che preoccupato per la salute del figlio va a trovarlo nel convento di Sicignano degli Alburni: "mangi bene? ... mifissava negli occhi ... hai ancora le cimici? E quel puzzo ai cessi, ma non li lavano?"

Stando a dei ricordi raccolti da Pasquale Cascio, che prima di essere nominato vescovo nella diocesi dell’Alta Irpinia, è stato lungamente parroco proprio a Sicignano, i dintorni del locale Convento sono ricchi proprio di vitigni spontanei che producono quell’Uva Puttanella che rallegrava i palati dei giovani ospiti del Convento degli Alburni. Sarà quell’esperienza a forgiare priofondamente Rocco che diventerà per i suoi paesani il “monachicchio rosso” oppure il “Cristo piccolino”, a seconda delle fazioni locali. Nei primi mesi del 1944 (Rocco aveva aderito al partito socialista e il giorno di Natale del 1943 aveva convocato a casa sua un’assemblea di costituzione della sezione tricaricese del partito) apparve nel corso la scritta a caratteri cubitali «Abbasso il monachicchio rosso». Rocco non capì (o fece finta) che fosse lui il monachicchio rosso. La scritta non accese alcuna polemica ma non tardò ad essere cancellata anche per cia del fatto che alludeva alla sua statura fisica. L’esperienza conventuale è stupendamente raccontata nell’Uva Puttanella. Il riassunto o il commento sciuperebbero il racconto. In questo racconto ogni periodo, ogni rigo, ogni parola sono ricche di esperienze e di immaginario poetico. Mi limito a brevi sottolineature, ispirandomi ancora una volta all’Universo contadino che richiama il Convento dei Cappuccini di Sicignano nel suo paesaggio naturale, circondato dall’alone leggendario della sua fondazione, e della descrizione elefantiaca e animata dei monti degli Alburni: «San Francesco era andato in sonno a un frate dicendogli che c’era un parapetto di monti sopra la pianura salernitana, a mano destra; se si metteva in cammino quella notte senza luna, li avrebbe trovati guardando in alto, avrebbe pensato al colore del cielo prima dell‘alba e quelli invece erano i monti. Vi fu costruito il convento sulle bocche delle sorgenti d‘acqua, che venivano fuori al punto dove la corona di roccia finiva e cominciavano le coste di terra con gli alberi. Gli Alburni erano cerei a vederli ma pesanti, massicci, come elefanti».

La valutazione di Rocco dell’esperienza conventuale è ambivalente. Da una parte c’è l’aspetto della durezza complessiva “Non posso non ricordare, tuttavia, la vita dura del convento: i tozzi di pane disuguali a tavola, frutto della questua; il materasso di lana che, nel trasferimento da Sicignano a Cava, viene sostituito con un materasso duro; le cimici che correvano come formiche nel letto; il puzzo dei cessi, dove grosse zoccole sembravano volersi lanciare addosso e Rocco si portava l’astuccio delle penne per fare rumore e spaventarle”. Eppure: « [ … ] lo capivo appena uscito, chiaramente se ero capace di sostenere il contegno davanti agli altri petulanti, prepotenti, se tra la folla ogni uomo, con la sua faccia e il suo peccato, o con la sua bellezza, io dovevo rispettarlo come fratello. Inoltre – a parte il latino e il pane della questua - la conduzione dell’orto fatto nel convento è un mestiere utile e delicato. Tutti gli amici prediletti, figli di contadini e di artigiani, imparavano ognuno un mestiere».

Rocco torna a Tricarico dopo la morte del padre e la situazione che trova è di tremenda povertà, comincia la sua attività politica organizzando le prime occupazioni dei terreni. Organizzare il popolo è il suo obiettivo, che proseguirà dopo la guerra, diventando sindaco a soli 23 anni, il più giovane di tutti.

Scotellaro continua a scrivere e molti amano il suo lavoro: Levi, Manlio Rossi, Montale, e diventa amico di Amelia Rosselli, la poetessa figlia di Carlo. Grazie a lui Henri Cartier Bresson andrà a Matera per fotografare la Città dei Sassi, unica ma non completamente apprezzata. Eppure erano i tempi di quando la “questione meridionale” era ancora al centro del dibattito culturale. Scotellaro muore mentre sta scrivendo l’autobiografico L’uva puttanella. Ha solo 30 anni. Era il 15 dicembre 1953. Luchino Visconti lo omaggiò nel film Rocco e i suoi fratelli, il nome del protagonista è ispirato a quello del nostro poeta.

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