OMAGGIO A RENATO AYMONE

SCOMPARE RENATO AYMONE. Fece conoscere i poeti ermetici meridionali



articolo di Oreste Mottola
Docente universitario, professore emerito a Salerno, critico letterario e poeta, ermetico lui stesso e studioso degli ermetici meridionali, questi era Renato Aymone, e niente più di questo scriveva sulle quarte di copertina dei suoi libri. Un improvviso malore notturno lo ha colto nella nottata di mercoledì nella sua abitazione di via Irno. Immediatamente soccorso, ma per lui non c’è stato niente da fare Era nato a Altavilla Silentina nel 1946, il padre era il veterinario condotto, proveniente da Napoli, la madre Vittoria Belmonte, un medico del paese e morì a seguito del parto. Un evento drammatico che segnò il suo rapporto con il paese che lasciò ancora piccolo. Prima Salerno e poi Perugia furono i suoi luoghi di studio. Altavilla restò nella sua ricerca di senso e di vita. Si segnalò a livello nazionale come critico e studioso di Tommaso Landolfi e Leonardo Sinisgalli. Una personalità che della discrezione, della ritrosia e del non mostrarsi faceva il suo principale tratto caratteriale. Una frase di Leonardo Sinisgalli: “Forse siamo in pochi a lamentarcisi non saper più trovare una patria fuori dalle dolci colline” la volle mettere come incipit di un suo scritto che comparve nel libro “La collima degli ulivi” dove un nutrito gruppo di autori faceva i conti con l’identità paesana. “Quando son tornato, o tomo qualche volta ad Altavilla, mi coglie per la salita dei Frangi un senso di soggezione, di straniamento, che cresce passando per piazza Castello. Scantono in via del Borgo, fino a quando mi infilo, costeggiando il sagrato del Carmine, nel portoncino della mia casa materna”. Dopo i ricordi dei canti e dei suoni di un quartiere che gravitava su una frequentatissima chiesa. “Ho fatto presto a sbarazzarmi della mia nostalgia di Altavilla. Per sopravvivere. Lo stress ecologico fu un inferno quando venni spedito lontano dalle sue mura. E’ allora che sono morto la prima volta. E’ allora che dovevo morire sul serio. Dopo fu perfino troppo facile abituarmi ad altri cieli, ad altre facce, ad altri paesi”. Poi Aymone passa ad elencare una serie di personalità del suo tempo, non i “noti”, ma i banditori, il facchino che aveva una sua divisa sulla quale collezionava medaglie, spesso di latta, di tutte le fogge. Su tutti loro invoca l’attenzione di Alfonso Gatto.
Il rapporto con il paese è doppio. Nel suo scritto lo risolve così: “Una volta ho capito che questo teatrino stava per finire, e quasi temevo di voltarmi. Infatti, era sparito; ne vedevo lontano l’ombra cieca sfarsi nella polvere. Le peggiori crudeltà le ho dovute esercitare contro me stesso”. L’appuntamento con Altavilla è per l’ultimo riposo, il cimitero. Poi lo sfuma.
“Ho pensato per qualche tempo che avrei compiuto anch’io quel tragitto che al limite del Borgo piega a destra, seguitando per l’erta ciottolosa tra due file di querce vecchissime, per giungere, all’ora prestabilita, all”ultima stazione. E è stato l ‘ultimo progetto che mi ha legato ad Altavilla. Poi da tranquillo materia- lista la cosa mi è tornata del tutto indifferente. Non amo granché le attenzioni dei vivi, e non credo che i morti si facciano compagnia. E poi l’immortalità mi spaventa più della tenebra eterna.
Ma una volta ho creduto a questa fantasia come all’ultimo mio progetto capace dì avere ancora significato. Montaigne aveva perfettamente riconosciuto e descritto negli Essais questo genere di regia, che organizza e sistema le cose per “dopo”, come una fisima, una pura mania”. Aymone, il critico educato ma rigoroso, aveva trasformato anche la sua esistenza in opera letteraria e l’evocazione del paese provocava in lui effetti da “madeleine” proustiana.
Oreste Mottola

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